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OBIETTIVI CONCRETI


"Nella vita e nello sport la paura viene innescata da situazioni sulle quali non riusciamo ad esercitare una sorta di controllo. Gli allenamenti duri , le avversità della vita, ci aiutano a vivere esperienze che poi cercheremo di replicare all'occasione sempre pensando che se siamo già stati in grado di controllarle nulla ci vieta di rifarlo. L'allenamento mentale serve in fondo a questo: a pensare di replicare qualcosa che abbiamo già controllato. Esperienze di successo o di padroneggiamento, in qualsiasi campo avvengano, elevano il senso di controllo degli individui. Esse costruiscono nel soggetto un alto livello di fiducia nella propria autoefficacia. Molte ricerche dimostrano che i risultati raggiunti tramite l’azione diretta producono convinzioni di controllo in maniera superiore a qualsiasi altro mezzo. Una persona in grave difficoltà, o di fronte a un obiettivo estremamente difficile da raggiungere, avrà più probabilità di non demotivarsi e di tollerare frustrazioni e disagio se possiede, nel suo background di esperienze, qualche situazione di superamento positivo a cui attingere.

Di fronte a un obiettivo molto sfidante, devi cercare di trovare energia e motivazione ispirandoti anche al successo ottenuto in un campo completamente diverso: quello professionale o privato. Sono convinto anche che questo principio possa avere una valenza rivoluzionaria in campo sportivo.

A mio parere l’allenamento dovrebbe trasformarsi: oggi è essenzialmente un processo imperniato sull’applicazione di protocolli di lavoro in vista di obiettivi generali, per lo più di tipo agonistico: l’allenamento/adempimento, una procedura di cui l’atleta stesso sente di poter controllare poco, di cui ha poca consapevolezza e di cui tende a non assumersene la responsabilità. Dovrebbe invece diventare un percorso focalizzato sull’espansione graduale del senso di controllo dell’ atleta, attraverso una sequenza di obiettivi mirati. Obiettivi non legati alle gare, che contengono per definizione fattori non controllabili dal soggetto (come la forza dell’avversario) e che dunque meno si prestano allo scopo: ma legati invece all’allenamento. Di fatto, esternamente, le cose non cambierebbero molto. All’interno sarebbe molto diverso. Perché, pur facendo praticamente le stesse cose, l’attenzione dell’atleta e del tecnico sarebbe rivolta all’aumento del senso di controllo. Che, alla fine, a parità di allenamento è quello che fa la differenza.

Con questo approccio l’atleta si assumerebbe maggiormente la responsabilità del proprio allenamento e sarebbe molto più forte dal punto di vista mentale di fronte a degli ostacoli. Alla base di tutto sta il fatto che l’aumento del senso di controllo porta con sé un cambiamento nella valutazione cognitiva generale; e un miglioramento della risposta emozionale, fisica e comportamentale alle situazioni di difficoltà.

Ma anche fuori dal campo sportivo, dare o darsi obiettivi prestazionali può servire a far sviluppare il senso di controllo. I trainer dei programmi di gestione dello stress dovrebbero prescrivere obiettivi reali ai loro clienti. Inutile dire che gli obiettivi più facilmente utilizzabili con qualsiasi soggetto sono quelli che hanno a che vedere con l’attività fisica.

Essi risultano particolarmente incisivi nel permettere il cambiamento della percezione di autoefficacia personale. E, anche se lo scopo non è direttamente questo, fanno anche sperimentare tutti i benefici salutistici e anti-stress dello sport.

Se il soggetto è sedentario, ancora meglio: intraprendere l’attività fisica è già in sé un obiettivo che può essere utilizzato allo scopo; magari declinato in modo graduale, attraverso una serie di sotto-obiettivi. In merito alle caratteristiche di un obiettivo reale, esso dovrà essere: a. Specifico per quella persona. b. Definito, possibilmente misurabile e valutabile in maniera precisa; obiettivi specifici regolano l’azione in modo più preciso di obiettivi generali.

c. Descritto come basato su capacità che possono essere apprese e non su abilità innate (cioè fa vedere il risultato come frutto dell’impegno).

d. Sfidante, nel senso di generare coinvolgimento emotivo. L’interesse genera neuroplasticità, cioè la nascita di nuove connessioni nervose. Quello che si impara in condizioni di alto interesse e di relativa attivazione emozionale, non viene più dimenticato.

Le esperienze di padroneggiamento caratterizzate fortemente sotto l’aspetto emotivo lasciano tracce permanenti nel sistema nervoso: esse creano nuove strutture neurali all’interno del cervello che verranno richiamate all’operatività da ogni situazione simile a quelle che le ha generate.

Questo è un doppio vincolo, perché il fenomeno si manifesta se l’esperienza è caratterizzata da emozioni sia negative sia positive. Se io provo a sollevare un peso e fallisco, o a un certo livello di intensità di fatica arresto il mio giro di pista, genero una risposta che sarà facilitata in circostanze simili: riprovando le stesse sensazioni sarò portato a fermarmi di nuovo. In caso di successo, lo stesso fenomeno invece faciliterà un ulteriore esito positivo.

e. Sfidante, ma non eccessivamente: l’obiettivo deve essere alla portata del soggetto. Egli deve essere in grado di raggiungerlo. Un obiettivo troppo sfidante diventa demotivante perché si sa già che è falso. Oppure perché risulta troppo frustrante, facendo diminuire il senso di controllo, invece che facendolo aumentare. Un obiettivo troppo poco sfidante risulta demotivante, per il meccanismo opposto, perché svalutativo nei confronti del soggetto.

f. Strutturato in modo graduale. Alex Huber ha scalato la Direttissima alla Cima Grande di Lavaredo slegato. 500 metri di altezza, molto strapiombanti, una via che quando fu aperta richiese grande utilizzo di mezzi artificiali. Un exploit straordinario che non può essere ridotto a «follia»: nessun folle dispone di un controllo mentale così grande da poter tenere a bada il terrore così a lungo da superare 500 metri di vuoto. Eppure, leggendo i resoconti della sua preparazione, si vede con chiarezza che il suo straordinario controllo è stato costruito in modo assolutamente graduale. Partendo da vie brevi in palestra, sempre più difficili fino ad arrivare a difficoltà eccezionali, ma sempre slegato; e da vie lunghe, in montagna, gradualmente sempre più lunghe e difficili, seppure con difficoltà assolute minori, anch’esse sempre solo e slegato. Non si sarebbe mai sognato, dall’oggi al domani, di tentare la Direttissima. Suddividere un obiettivo in piccoli passi graduali è uno dei requisiti per stimolare la plasticità neuronale. Piccoli progressi consentono al cervello la creazione di nuove connessioni nervose che stabilizzano le nuove conquiste realizzate. Passi eccessivi non consentono né un adattamento psicologico né cerebrale.

g. Tale per cui l’insuccesso possa essere ristrutturato come la tappa iniziale da cui ripartire per ritentare di raggiungere l’obiettivo. Il processo di acquisizione dell’obiettivo dovrà accompagnarsi a una serie di accorgimenti comunicativi e relazionali da parte del tecnico\trainer:

1. ricevere molti feedback (feedback positivi e correttivi sul come migliorare la prestazione, non giudizi sulla persona) aumenta il senso di controllo dell’individuo.

2. Generare coinvolgimento emotivo: ma non serve urlare o sbracciarsi durante la prestazione. Trasmettete interesse verso l’obiettivo. Ciò garantisce neuroplasticità.

3. Lasciare al soggetto la possibilità di sbagliare. È sui feedback correttivi dell’errore che si può costruire l’apprendimento. Creando paura di sbagliare si inibisce l’apprendimento.

4. Segni velati di svalutazione: lodi eccessive per prestazioni mediocri, trattamento neutro di fronte a prestazioni inadeguate. Inoltre gli elogi senza fondato motivo vanno evitati perché producono un effetto paradossale: rappresentano un fattore incontrollabile per l’atleta, che le percepisce come slegate dai suoi comportamenti («ho fatto male e ricevo una lode: ma perché?»). Per questo motivo tendono ad abbassare, piuttosto che ad innalzare, il senso di controllo dell’alteta. "


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